Giovani e lavoro: la loro voce in una indagine CISL Lombardia

LAVORARE PER VIVERE, NON VIVERE PER LAVORARE: STOP AL MITO DEL POSTO FISSO, MA I SALARI BASSI RENDONO DIFFICILE IL SOGNO DI “METTERE SU FAMIGLIA”.

“Vogliamo lavorare per vivere e non vivere per lavorare”: a raccogliere la voce dei giovani lombardi è un’indagine promossa dalla Cisl e realizzata da BiblioLavoro, il centro studi regionale del sindacato. Ciò che rende più attrattivo un lavoro è ancora lo stipendio, ma poi vengono altri fattori come l’equilibrio fra attività professionale e tempo libero e la qualità del clima aziendale. Tramonta il mito del posto fisso, ma restano problemi irrisolti come il precariato, la disparità di genere, il basso livello dei salari che complica il progetto di “mettere su famiglia”.

La ricerca, presentata venerdì scorso a Milano durante un convegno organizzato con il Laboratorio Giovani 2.0. della Cisl, ha coinvolto 3.571 iscritti (età media 30,2 anni, quasi uno su 4 è under 27, oltre 4 su 10 hanno una laurea, il 55% sono donne, l’8,8% ha origine straniera).

“Con questa indagine – osserva il segretario generale della Cisl Lombardia, Fabio Nava – abbiamo voluto metterci in ascolto dei giovani, per capire meglio cosa può fare il sindacato per loro e con loro. Ciò che è emerso è chiaro: le nuove generazioni cercano un lavoro che li rispetti, li valorizzi, che non li schiacci, che lasci spazio alla vita, al tempo per sè, ai desideri, alle passioni. Non sono più sedotti dal mito del posto fisso, ma questo non significa che abbiano rinunciato alla stabilità, al senso profondo del proprio impegno. Però non sopportano più tirocini infiniti, straordinari non pagati, contratti leggeri e fragili come carta velina. Vogliono dignità, non paghette. Ambiscono a  potersi costruire un futuro, una famiglia: non è vero che non vogliono mettere al mondo dei figli. Lo desiderano, ma troppo spesso sono costretti a rimandare o a rinunciare. Non chiedono miracoli, ma di potere scegliere, di non essere giudicati o penalizzati per una maternità o una paternità. Di trovare intorno a sé un sistema – pubblico e nei luoghi di lavoro – che li accompagni, li sostenga, che renda possibile ciò che oggi sembra troppo difficile. Mi ha impressionato il dato sulla partecipazione alla vita dell’impresa: il 95,6% crede che sia la strada per cambiare il modo di lavorare. È il messaggio potente di una generazione che non vuole solo essere rappresentata, ma vuole esserci. La Cisl ha raccolto questo segnale con la sua iniziativa sulla partecipazione, ora diventata legge dello Stato. Il sindacato deve e può fare di più per avvicinarsi ai giovani: in Lombardia abbiamo deciso di provare a cambiare passo, di spalancare le porte di casa, di aprirci senza timore al futuro”.

I DATI PRINCIPALI DELLA RICERCA

Stipendi “così così”, più bassi per le donne
Il reddito medio del campione è pari a 1.576,90 euro al mese ed emerge una preoccupante disparità di genere: le donne (con contratto full time) guadagnano il 17,9% in meno degli uomini e sono più soggette al fenomeno del part-time involontario, che le riguarda nel 15,3% dei casi (+420% rispetto ai colleghi). Il reddito medio di chi lavora part-time è inferiore del 40%. E la  laurea garantisce un salario più alto di appena il 6%.

Impossibile risparmiare, per fortuna ci sono mamma e papà
Più della metà (51,6%) non riesce a risparmiare nemmeno il 10% della busta paga e quasi 3 su 4 (72,7%) dichiarano che il salario non copre i bisogni essenziali. Il 40% non sarebbe in grado di fare fronte ad una spesa imprevista di 1.500 euro e il 25,9% continua a ricevere aiuti economici dalla famiglia. Non a caso, circa 1 su 4 vive ancora con i genitori.

Lavoro nero: ci è passato 1 intervistato su 2     
Circa 1 su 2 (49,5%) ha avuto esperienze di lavoro sommerso, mentre 4 su 10 (41,6%) prestano ore di straordinario non pagate o pagate fuori busta. Un segnale allarmante di una “normalità dell’irregolarità” che va superata. Non a caso il 12% ha cominciato a lavorare totalmente in nero. Il primo ingresso legale nel mercato avviene soprattutto con contratti a tempo determinato (33,8%). A seguire (16,6%) tramite tirocini extracurricolari, uno strumento più utilizzato del ben più tutelante apprendistato (15,1%).

Come si trova lavoro? Passaparola e web
L’informalità sembra prevalere: il 39% ha trovato il primo lavoro grazie al passaparola (famigliari/amici), il 28,5% rispondendo ad un annuncio sul web o lasciando spontaneamente il CV. Quindi vengono i canali scolastici/universitari (14,3%) e le agenzie per il lavoro (9%). Stenta il sistema pubblico (concorso 5,2%, centri per l’impiego, 3,6%). In tema di transizioni da un posto all’altro si invertono le prime due posizioni: il 35,4% ha trovato l’ultimo lavoro con un annuncio sul web o lasciando spontaneamente il CV, il 24,3% tramite il passaparola. Sale al 16,6% il concorso pubblico, calano ulteriormente i centri per l’impiego (2,5%).

Cosa mi aspetto dal lavoro? Cosa lo rende attrattivo?
I giovani vogliono un lavoro che rispetti la vita e non si accontentano di un impiego qualsiasi. In altre parole “si lavora per vivere e non si vive per lavorare”. E allora si capisce perché l’84,8% attribuisca al lavoro un significato diverso rispetto alle generazioni dei genitori e dei nonni: equilibrio, benessere, salute mentale, crescita, meno attaccamento al posto fisso e all’azienda sono le nuove parole d’ordine. Non è un caso che solo il 26% pensi di restare nella stessa azienda fino alla pensione e quasi la metà (47,3%) stia già valutando un cambiamento. In media, gli intervistati nei primi anni della loro vita professionale hanno cambiato ben 4 posti di lavoro. Ma cosa rende un lavoro attrattivo? Al primo posto rimane lo stipendio (82%), subito dopo vengono fattori come l’equilibrio tra lavoro e tempo libero (72%), il clima aziendale (61,8%) e la possibilità di crescere professionalmente e di fare carriera (51%).

La precarietà: “Ti senti sbagliato”
Se ai primi posti ci sono l’instabilità contrattuale, l’inadeguatezza del salario rispetto al costo della vita, la carenza di tutele e diritti (ad esempio su malattia, maternità, ferie), la precarietà si declina anche nella scarsa possibilità di ricevere formazione, avanzare nella carriera, essere riconosciuti per gli studi fatti e le competenze acquisite. Ma c’è anche chi segnala lo “sfruttamento sistemico” (“Mi chiedono di essere sempre disponibile, ma non mi pagano le ore in più”), la flessibilità imposta “(Ogni domenica sera aspetto un messaggio per sapere se il giorno dopo lavoro o no”), la dipendenza economica dai genitori. Tutto questo genera “incertezza totale sul futuro” e ha un impatto sulla salute mentale (“Ti senti sbagliato, come se fossi tu il problema. E’ logorante”).

Welfare: ascoltare di più i dipendenti
Sul benessere può incidere il sistema di welfare, ma soltanto il 22% degli intervistati afferma che la propria azienda raccoglie e analizza i bisogni dei dipendenti, con il risultato che le misure erogate rischiano di essere incoerenti e poco efficaci.  La ricerca ha messo in evidenza un certo gap fra desideri e reali disponibilità, in particolare dove le esigenze dei giovani sono più forti: flessibilità oraria per la conciliazione vita-lavoro (è utile per il 93%, è disponibile al 42,7%), servizi e attività per il tempo libero e il benessere psicofisico (80%-25,4%), misure di supporto alla genitorialità (72%-48%).

Formazione: ne serve di più e migliore
In media gli intervistati hanno partecipato a meno di 2 corsi negli ultimi 3 anni. Per 1 su 2 la formazione erogata in azienda non è coerente con i fabbisogni individuali; il 57,4% pensa che la formazione scolastica/universitaria ricevuta non sia adeguata alle esigenze delle imprese; quasi 2 su 3 ritengono di avere più competenze rispetto a quelle richieste dalla propria mansione (overeducation). Guardando al futuro: circa 3 su 10 credono che le proprie competenze non saranno spendibili nel mercato del lavoro del 2030. Un tipo di formazione fondamentale è quella sulla salute e sicurezza: il 48% dichiara che non gli sono mai stati illustrati chiaramente i propri diritti su questi temi.

Una famiglia? Vorrei ma non posso
L’88% sogna di costruire una famiglia, ma il 65,9% ritiene che il proprio stipendio, giudicato troppo basso, renda questo progetto quasi impossibile. Il 45% pensa che sia necessario sacrificare la carriera per costruire una famiglia e il 22% ha subito pressioni al lavoro o in fase di colloquio per rinunciare a fare figli o rimandare la genitorialità. Preoccupa il dato sulle donne che sale a quasi una su 3 (31,3%). In azienda quasi 1 giovane su 2 percepisce un conflitto generazionale, segno di un dialogo troppo fragile tra le età.

La pensione? Meglio non pensarci
Alla domanda “Quali sensazioni ti vengono in mente pensando alla tua pensione?” il 96% ha espresso emozioni negative. Le parole più ricorrenti? Incertezza, ansia, miraggio, irraggiungibilità, rabbia generazionale, sfiducia nel sistema. Una fotografia di come le nuove generazioni percepiscano il proprio futuro previdenziale: non come un traguardo da costruire, ma come un orizzonte incerto che si allontana. Oltre la metà (53,3%) ha scelto di aderire ad un fondo di previdenza complementare (contrattuale o privato).

Cosa mi aspetto dal sindacato?
Al sindacato i giovani chiedono di aumentare gli stipendi per fronteggiare i costi della vita attraverso il rinnovo dei contratti nazionali (76,1%), di intervenire sull’organizzazione del lavoro (smart working, flessibilità, riduzione dell’orario, 51,4%) e di costruire un’offerta di welfare contrattuale aderente ai bisogni (34,1%). Ma c’è un segnale di speranza e di voglia di esserci: il 95,6% riconosce nella partecipazione, così come definita nella proposta di legge promossa dalla Cisl, lo strumento fondamentale per affrontare la nuova stagione del lavoro e migliorare le condizioni quotidiane. Non vogliono essere solo rappresentati, ma protagonisti attivi del cambiamento.